Il Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR è sicuramente “il monumento più discusso, meno amato, ma anche più familiare e famoso della Roma moderna” (Sergio Poretti). Da un lato la sua difficile identità funzionale lo ha reso sempre un oggetto misterioso e spesso inutilizzato, al contrario la sua figura così perfetta ed inequivocabile ha trasformato il Palazzo nel monumento simbolo di un quartiere e forse, impropriamente, di un preciso periodo storico.
Nel Luglio del 1937 viene bandito un concorso nazionale per la seconda delle quattro principali costruzioni permanenti dell’Esposizione universale di Roma in occasione del ventennale fascista (il programma comprende, oltre al palazzo, quello dei Ricevimenti e dei Congressi, la Piazza Imperiale e la Piazza ed Edifici delle Forze armate). Il palazzo deve inizialmente ospitare la mostra della civiltà italiana, ed in seguito trasformarsi in museo permanente della civiltà italiana.
Al termine del concorso vengono consegnati cinquantatre progetti. Tra i membri della commissione, oltre a Marcello Piacentini, deus ex machina dell’architettura del ventennio, figurano Giuseppe Pagano, Giovanni Michelucci e Piero Portaluppi.
I lavori della giuria si concludono il 16 Dicembre dello stesso anno. I cinque finalisti sono Ugo Luccichenti, Mario Ridolfi, Umberto Nordio e due raggruppamenti, il primo formato da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgioioso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers e Gaetano Ciocca, il secondo da Giovanni Guerrini, Ernesto La Padula e Mario Romano. La commissione, all’unanimità, assegna il primo premio al progetto del gruppo Guerrini, La Padula, Romano.
I risultati del concorso mostrano il deciso trapasso del razionalismo europeo a favore di una ricerca compositiva più figurativa e più direttamente legata all’antichità classica. Il progetto vincitore, infatti, come molti altri progetti presentati, allude chiaramente ai grandi tempi del passato, costruito su un alto basamento, in cui “l’elemento dell’arco romano […] è stato adottato nei suoi classici rapporti e composto in un ritmo che si manifesta come massa unitaria e modernissima” (dalla relazione di progetto). Come documentato nella fitta corrispondenza epistolare, non poche sono le modifiche apportate da Piacentini al progetto di concorso: non più otto piani con file di tredici archi, ma sei piani con 9 arcate per piano, il coronamento è sormontato da un’ampia fascia piena, tuttavia la proposta piacentiniana di inserire un grande portale centrale in corrispondenza dell’ingresso non viene recepita dai progettisti, come quella di decorare le volte dei porticati.
Lo stile del regime impone all’edificio il suo rivestimento: dal 1938 vengono infatti banditi il cemento ed il ferro per gli edifici, a favore dei tradizionali materiali lapidei italiani. Tuttavia questo nuovo colosseo quadrato è un ibrido costruttivo “autarchicamente imperfetto […] in esso convivono in modo apparentemente contraddittorio la muratura con lo scheletro di cemento armato, il rivestimento lapideo con igrandi serramenti in acciaio, i solai laterocementizi con i lucernarui di vetrocemento” (Rosalia Vittorini).