Paolo Zermani

Fabrizio Del Pinto

, 2014

12
Ott
2014
AUTORE
Fabrizio Del Pinto
Paolo Zermani nasce nel 1958. Dal 1990 è professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Firenze. Ha insegnato al Master “Costruzione di chiese” presso la Facoltà Teologica dell'Italia Centrale e alla Syracuse University di New York e Firenze.
È stato direttore esecutivo della rivista internazionale di Architettura "Materia" dal 1999 al 2000.
È fondatore e coordinatore dei Convegni sulla “Identità dell'architettura italiana” e della “Galleria dell'architettura italiana” di Firenze.
Nel 1986 la rivista "Ottagono" gli ha dedicato la copertina del numero monografico sulla nuova architettura italiana. Nel maggio 1991 la rivista giapponese "A+U" (Architecture and Urbanism) ha pubblicato un numero monografico sul suo lavoro. È stato selezionato per il Premio di Architettura Palladio nel 1988 e nel 1989. Nel 2003 ha vinto il Premio Giorgio Vasari per l’architettura.
È Accademico di San Luca.
Tra le sue opere e progetti: il Teatrino di Varano (1983-85); il Padiglione di Delizia a Varano (1983-86); la Cappella sul mare a Malta (1989); la Cappella-Monumento sull'ex-muro a Berlino (1990-92); l'Edificio
Sacro sul Bastione del Sangallo a Roma (1994); il Cimitero di Sansepolcro (1998); la Chiesa dei Francescani a Perugia (1997-2007); il Cimitero di Sesto Fiorentino (1999-2010); il Municipio di Noceto
(1999); la Casa della finestra sulle mura di Firenze (1999-2002); il Museo della Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, Arezzo (2000-2010); il Tempio di cremazione di Parma (2009); la Biblioteca dell'area tecnologica per l'Università di Firenze (2009); il restauro e ricostruzione del castello di Novara (2010); il Museo storico di San Galgano a Chiusdino, Siena (2010); la Scuola per l'Europa a Parma (2010); la Chiesa di Gioia Tauro (2010).
È stato invitato alla Biennale Architettura di Venezia nel 1991, 1992 e 1996 e alla Triennale di Milano nel 1993 e 2005. Nel 2003 la casa del Mantegna di Mantova ha presentato una mostra antologica sui suoi
progetti e realizzazioni dal 1983 al 2003.
Nello stesso anno la Galleria “lo Spazio” di New York ha organizzato la mostra “Paolo Zermani Architecture in the Italian Landscape”.

TESTO

Lei si definisce un architetto attento alle esigenze del luogo, in che modo ha maturato questa poetica?
Sono nato a pochi metri da un castello imperiale del IX secolo, le sue rovine sono state il luogo di gioco della mia infanzia, la sua pianta allungata e dispersa su un crinale appenninico un quesito mai risolto.
Così ho cominciato a conoscere l'architettura
Poi, nel 1984, un sabato a mezzogiorno. Luigi Ghirri giunge a Varano e scatta tre fotogrammi alla mia prima opera mentre la nebbia sostituisce il sole.
Il “Teatrino”, mia prima opera, vi appare come sospeso, appoggiato a terra lievemente.
“Sembra un L.E.M.,” dice Ghirri, alludendo al modulo con cui gli americani erano scesi sul suolo lunare, “Ma è attaccato a terra”.
In quel momento ho venticinque anni e mi interessa, come oggi, un progresso fatto di novità che nascono da un prima e attendono un dopo, che appartengono a un grande ciclo.
Ciò che dura poco non è architettura.
Ghirri trasforma gli attimi di uno scatto nell’eternità del quotidiano.
Ci uniscono la vista di un paesaggio in sfacelo e la visione della sua possibile salvezza.
Il mio libretto Identità dell’architettura, del 1995 e, da allora, le mie conferenze, si aprono con la straordinaria foto di Ghirri all’” Italia in miniatura” di Rimini, un villaggio per bambini in cui sono riprodotti, fuori scala, i maggiori monumenti italiani, uniti in modo anomalo.
Considero l’architettura come continua ricostruzione differente o, se vogliamo, come continua, incessante cura della ferita che l’uomo contemporaneo arreca al corpo del mondo.
In tal senso ho parlato spesso di “ultimo orizzonte” in senso temporale, riferendomi a un punto di fuga che si sposta continuamente, uno spazio continuamente intercluso cui ci obbliga il nostro tempo.
Rispetto a tale realtà priva di misura è necessaria, da parte dell’architettura, una lettura silenziosa e composta delle cose.
La materia più informe, il caos più angosciante, non hanno carte da giocare.
Solo la misura può illuminarli di una nuova luce vera, non abbagliante.
Dentro questa luce può prendere corpo l’eterno rinnovamento della tipologia.

Quali maestri considera più significativi nella sua formazione?
I miei maestri sono Giovan Battista Aleotti, ingegnere ed architetto degli Estensi, dei Bentivoglio, dei Farnese, autore del Teatro Farnese di Parma, e Giacomo Vignola, autore tra l’altro del Palazzo Farnese di Piacenza.
Aleotti porta l'acqua dei canali e dei fiumi padani, in forma di mare teatrale, dentro il corpo duro della Pilotta parmigiana. Vignola porta il paesaggio, ancora attraverso il teatro, nel cortile del Palazzo Ducale.
Entrambi lavorano attraverso la “scala” e la riformulazione dimensionale del suo significato.
La vicenda del Vignola mi ha coinvolto profondamente, applicata alla Pianura Padana, per quel tanto che ha unito, in diverse opere, architettura e struttura del paesaggio.
I suoi progetti per la costruzione del Teatro Farnese a Piacenza, nelle diverse versioni, pongono la struttura bonificata del territorio agrario tra la città e il Po' come elemento centrale per concepire il carattere dell'edificio, chiuso verso la città e dotato di un cortile interno, nel quale un teatro classico viene ottenuto scavando il corpo di fabbrica posteriore.
La gradonata è divisa da un vomitorio che risulta in diretta continuità spaziale con la facciata posteriore, questa forata da cinque logge rivolte verso il paesaggio. Da li parte il canale d'acqua che raggiunge il Po; dal Po si può raggiungere il mare.
Il Palazzo non è che un frammento, strettamente relazionato al paesaggio.
Le figure classiche, il semicerchio del teatro, il quadrato della pianta del palazzo, il rettangolo delle logge, si organizzano per rappresentare questo rapporto fondamentale e per consentirne lo svolgimento.
Vignola, quale fuoco di questo ragionamento, sceglie il semicerchio, secondo un percorso tutt'altro che casuale: Piacenza aveva posseduto il più grande dei teatri romani del Nord Italia.
E così, attraverso il teatro scavato nel palazzo, architettura e struttura sostanziale del paesaggio coincidono.
Il ragionamento vale anche oggi, nelle distanze mutate. Si tratta di lavorare sulla “scala” dell'architettura, come ad azionare la messa a fuoco di un apparecchio fotografico, adeguandola alle condizioni e alla distanza dal soggetto, fino a percepirne il senso in modo nitido.

Una citazione su tutte?
“Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio”.
È di Josè Mourinho.
Vale, cambiati i termini, anche per l’architettura.

Come si coniuga, oggi, il Genius loci con il concetto di sostenibilità?
Il Genius loci è sostenibilità. Perché dovremmo inventarne una?
Il Novecento ha favorito una rincorsa a delegare a supposte nuove tecnologie la soluzione dei problemi della disciplina, caricando la costruzione di dotazioni funzionali e impiantistiche certamente consolatorie per una società protesa verso il voluttuario, ma non indispensabili e costose.
Ciò ha reso la costruzione, apparentemente più sofisticata, sempre più schiava e dipendente da un fabbisogno tecnologico ed energetico crescente, del quale ora, con un discorso che si morde la coda, ci si affanna a cercare la sostenibilità, attraverso un’ulteriore complicazione tecnologica.
Il grande processo connaturato al materiale costruttivo, che nella storia è sempre stato segnatamente caratterizzato e risolto nella continuità tra la struttura materica del suolo e la struttura interna propria della costruzione (la pietra che diventa concio, il tufo che diventa blocco, l’argilla che diventa mattone) ha trovato brusca interruzione nel proprio svolgimento.
Sono ora in gran parte le nuove tecnologie, non autosufficienti e spesso non compatibili, a creare il presupposto per ulteriori esigenze.
L’abuso materico e il blocco nella catena di trasmissione delle tecniche, connesse alle specificità di ciascun luogo di provenienza, ha stimolato per conseguenza ingenue adesioni alle proposte più commerciali.
Il rapporto architettura-tecnica vive oggi una nuova attualità, ma il suo manifestarsi, nel nostro Paese, è soltanto apparente.
La risposta alla necessità di dotare i tipi dell’abitare contemporaneo delle tecniche di contenimento energetico ne è l’esempio più lampante. Essa viene proposta attraverso un generico approvvigionamento di attrezzature ingombranti, importate in ritardo, di scarsa efficacia reale, o colorata di un bizzarro travestimento ecologico, con cui si consegue la definitiva amnesia del carattere tipologico dell’edificio.
Nel nome dell’urgenza risparmiatrice e di una ambita compatibilità ambientale si concepiscono edifici arborati di essenze improbabili che raccolgono il consenso e coprono la cattiva coscienza dei committenti pubblici.
Queste false sperimentazioni, che traviano le naturali vocazioni dei materiali, travestendone, attraverso protesi, la verità tecnologica, distruggono definitivamente il significato delle tecnologie e delle tipologie, quali ci sono state consegnate dall’esperienza e quali dovremmo trasformarle senza mascheramenti, attraverso altra esperienza.
L’equivoco messo in scena distrae dalla vera ricerca sui materiali, sulle tecniche, sui valori dell’energia, intrinseca a ogni luogo, ma delegata da sempre, nell’architettura, alle specificità delle proprie misure d’ambiente, intonse o trasformate, al loro darsi e mutare non neutrale e generalizzabile.

FDP Che cosa intende per architettura delle differenze?
PZ Il termine deriva da un mio libretto giovanile, ma vale ancora.
Come nessun uomo è uguale a un altro, nessun luogo è uguale a un altro. Ogni diverso luogo merita una diversa architettura, anche oggi, tempo in cui tutto sembra appiattito. Si tratta però solo di uno strato, quello del nostro tempo, uno strato pesante, ma pur sempre uno dei mille che il tempo ha depositato.

Come giudica le dinamiche compositive legate allo straniamento e alla meccanica astrazione?
Il Novecento ha inventato l’astrazione.
Di per sé l’astrazione deriva dal predominio della tecnica e, in tal senso, è certo una follia.
Diversi sono lo straniamento o l’astrazione nell’arte e nell’architettura, intesi come un processo raffinato necessario al distacco dalla contingenza per affermare valori che si avvicinino all’eterno. L’arte vera ha sempre fatto questo, in forme differenti.
Il Novecento ha sublimato il concetto.
Poi vi sono strane cose, fatte oggi, originate dal nulla e tese al nulla. Nulla, appunto, non astrazione né straniamento.

Autoreferenzialità e protagonismo, edonismo mediatico e rappresentazione effimera, sono i requisiti per arrivare al successo o contribuiscono solo a delegittimare la professione?
Si tratta di cose tristi e penose, che ci avvolgono. Ma non è un fatto nuovo.
È Vasilij Kandinskij a scrivere, oltre cent’anni fa, riferendosi al XIX secolo:
“In quell’epoca di divinizzazione della materia, veniva riconosciuto esistente solo ciò che è corporeo, visibile con gli “occhi” del corpo. E l’anima venne automaticamente soppressa. Automaticamente si svuotò il cielo.(…) L’altro non esisteva.”
“Esisteva. Ma stillava come un rivolo esiguo, coperto dal mugghio di un torrente impetuoso. E le persone assordate dal torrente non solo non desideravano, ma non potevano nemmeno sentire questo rivolo. Tutto era deposto ai piedi della materia. Così anche l’arte.”
“In epoche oscure come queste, l’arte non è necessaria quasi a nessuno, e alla massa serve solo il suo ruolo servile, da lacchè. Gli artisti, essi stessi permeati completamente di materialismo, dimenticano la loro vocazione, chiedendo servilmente al pubblico: “Che cosa desiderate?”
“Ecco perché, visti da nessuno, gli artisti dell’arte autentica che eternamente mai s’interrompe, i quali lavoravano in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse, diedero l’avvio a un nuovo anello della catena eterna,(…) Senza riconoscimenti, in solitudine, visse così eroicamente la sua vita fuggendo dalle città e perduto tra le cime dei monti, Segantini; così Bocklin, fuggito dalla sua Svizzera; e Gauguin, fuggito dalla sua Francia, e Van Gogh, rintanatosi in provincia, e il geniale Cézanne. Tutto ciò accadeva in silenzio, era ostacolato e relegato nel profondo.”
Cosa è necessario aggiungere, cent’anni dopo, in nome dell’arte nuovamente venduta al materialismo, a queste parole?
Quelle che oggi hanno la pretesa di definirsi critica e architettura, si colmano la bocca della parola “nuovo”, ma parlano del nulla e mostrano il nulla.
Vendute al commercio, non possono che manifestarsi con i caratteri vuoti del commercio.
Altro è il nuovo.
Ogni atto del nuovo costituisce lo strato derivato dalla combustione di strati precedenti, su cui la vita si è rappresentata, bruciata o fissata.
In questo contesto il nuovo non è dunque un esercizio per individui fantasiosi, ma una variazione del modo di rappresentare la stessa cosa, di riconoscere in quest’ultima la parte degna di convivere con l’antico che ad essa si è sacrificato.
Per brevità mi riferisco a due parole, a due temi che, in nome della contemporaneità e della novità, almeno per il campo dell’architettura, sono oggi fonte di manipolazione e di un manifestarsi vuoto: tecnica e immagine.

Mi potrebbe indicare uno o più architetti contemporanei che Lei reputa particolarmente validi?
Ho diversi amici bravi……

Se l’architetto si fa interprete di istanze pregresse che da sempre condizionano lo sviluppo umano, dove si colloca il suo contributo e quando una architettura si definisce realmente compiuta?
Non ho la presunzione di collocarmi troppo in alto.
Alla metà dell'Ottocento David Caspar Friedrich ha un presentimento del fatto che i rapporti tra le distanze delle cose cominciano a mutare. Uomini e donne, quasi sempre di spalle, osservano la vicenda del paesaggio come se il quadro fosse una camera dentro la quale si fissa l'immagine, potendone variare la scala di percezione.
Già due quadri del 1808 ritraggono La finestra destra e La finestra sinistra dello studio dell'artista e il paesaggio filtrato dal serramento a croce.
In questo caso lo studio è camera.
La finestra, rigorosamente scomposta dalla croce, offre alla vista quattro riquadri di cielo.
Lo studio è nudo, a parte il cavalletto e una seggiola, l'artista è in piedi con la sua tavolozza.
Quel cielo, scomposto in quattro settori, è l'Infinito, cioè il Divino.
Secondo la relazione con questo Infinito, un infinito perseguito nel paesaggio, ma costruito attraverso l'interiorità, Friedrich comincia la distruzione di tutto quanto è inutile per porsi il problema della scala delle cose. Sente che qualcosa sta mutando: egli richiama silenziosamente all'ordine.
Il problema della distanza è centrale: le sue figure non sono parte del paesaggio, ma semplicemente lo osservano. Spesso le figure di spalle coprono addirittura il punto di fuga della prospettiva, e comunque l'artificio prospettico viene trasgredito.
La nebulosità delle zone che dovrebbero risultare più nitide da luogo a una sfuocatura, tale quale si ottiene azionando a rovescio la messa a fuoco di un apparecchio fotografico, o tale comunque all'azione di un artificio, di una interferenza, di un processo esterno.
Il punto di fuga potrebbe dirsi ribaltato.
Noi viviamo dentro questo dramma, che il Novecento ci ha consegnato.
Possiamo solo mirare a ricomporre, attraverso la nuova complessità dei luoghi, una nuova unità tra interno ed esterno, pena l'estinzione.
Ogni mio progetto contiene questa ricerca.
Il Tempio di Cremazione di Parma, che ho ultimato poco tempo fa, riassume tale sostanza, sviluppando un percorso tra struttura interiore e struttura esteriore che determina, letteralmente, lo spazio architettonico.

Esiste una deriva culturale?
Esiste, e, per quanto riguarda l’architettura, alloggia soprattutto all’interno dei termini che ho citato: tecnica e immagine. Due equivoci moltiplicati all’ennesima potenza dal nostro presente.
Il rapporto architettura-tecnica vive oggi una prolificità soltanto apparente.
La risposta alla necessità di dotare i tipi dell’abitare delle tecniche di contenimento energetico eco-compatibili ne è l’esempio più lampante: un generico approvvigionamento di attrezzature ingombranti di scarsa efficacia reale, colorate di un bizzarro travestimento ecologico, con cui si consegue la definitiva amnesia del carattere tipologico dell’edificio.
Nel nome di un’esibita responsabilità ambientale si concepiscono edifici arborati di essenze improbabili che raccolgono il consenso e coprono la cattiva coscienza dei committenti.
Queste false sperimentazioni, che traviano le naturali vocazioni dei materiali, inibendone, attraverso protesi, la verità tecnica, distruggono definitivamente il significato delle tecnologie e delle tipologie, quali ci sono state consegnate dall’esperienza.
L’equivoco distrae dalla vera ricerca sui materiali, sulle tecniche, sui valori dell’energia, intrinseca a ogni luogo, ma delegata da sempre, nell’architettura, alle specificità delle proprie misure d’ambiente, intonse o trasformate, al loro darsi e mutare non neutrale e non generalizzabile.
Il Novecento, soprattutto nella sua seconda parte, ha favorito una rincorsa a delegare a supposte nuove tecnologie la soluzione dei problemi della disciplina architettonica, caricando la costruzione di dotazioni funzionali e impiantistiche certamente consolatorie per una società protesa verso il voluttuario, ma non indispensabili, e costose.
Di fatto ciò ha reso la costruzione, apparentemente più sofisticata, sempre più schiava e dipendente da un fabbisogno tecnologico ed energetico crescente, del quale ora ci si affanna a cercare la sostenibilità.
Il grande processo connaturato al materiale costruttivo, che è sempre stato caratterizzato e risolto nella continuità tra la struttura materica del suolo e la struttura interna propria della costruzione (la pietra che diventa concio, il tufo che diventa blocco, l’argilla che diventa mattone) ha trovato brusca interruzione
Sono ora in gran parte le nuove tecnologie, non autosufficienti e spesso non compatibili, a creare il presupposto per ulteriori esigenze.
L'abuso materico e il blocco nella catena di trasmissione delle tecniche, connesse alle specificità di ciascun luogo di provenienza, ha stimolato ingenue adesioni alle proposte più commerciali, determinando una omologazione leggibile e distinguibile quasi attraverso generi tipologici.
Basta osservare, in tal senso, le banche, o i centri commerciali, o le sedi delle concessionarie di automobili, primi a recepire tale influsso omologante, uguali a se stesse in ogni parte del mondo.
La colossale quantità dei residuati di questa finta tecnologia alimenta, in un circolo vizioso, la nascita e la riproduzione esponenziale di quelli che possiamo definire i luoghi comuni.
Per tale pretesa architettura è propagandata, quale pregio, una implicita provvisorietà.
Si nega così un concetto costitutivo fondamentale del processo architettonico, vincolato al principio di durata dell'opera.
Queste costruzioni o i loro insiemi servono al sistema produttivo, perché, come un elettrodomestico o una automobile, “consumano”, hanno continue necessità di manutenzione e presuppongono, in ogni caso, una vita breve e una sostituzione.
Possono allora, secondo alcuni, affollare la scena del mondo, proponendosi nelle forme più improbabili, stante la loro adesione preventiva al temporaneo o al futile.
Servono anche al sistema della critica, per costruirsi, partendo dal nulla e strumentalizzando il senso del provvisorio, il proprio miserabile podio.
L’altro tema critico è costituito da un concetto di immagine completamente svuotato del suo significato reale.
L’immagine che l’architettura produce, che la presunta critica avvalora e richiede, è un’immagine esibita, superficiale, già svelata, che al più appartiene al terreno della grafica.
Al contrario l’immagine della vera architettura non è mai riproducibile, perché corrisponde solo a sé stessa, definisce una unicità, non interessa un sistema corrotto che ha bisogno di alimentarsi.
È ancora analoga a quella evocata da Paul Florenskji, tanto tempo fa, per descrivere l’icona:
“Immaginate di trovarvi chiusi in una stanza, dove però si trova una finestra poco illuminata, dalla quale penetra la luce di un altro mondo.”

Attraverso quali parametri passa la vera essenza di modernità?
Nel suo libretto “La fiamma di una candela” Gaston Bachelard ci ricorda come, per molto tempo, sul tavolo di ogni sapiente “accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma di una candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite”.
La similitudine della fiamma non è soltanto-applicata all’architettura-un esercizio di possibile reverie.
Nella fiamma, come nell’architettura, deve esistere un fuoco doppio, l’uno più forte che divora l’altro, “sulla fiamma che sale vi sono due fiamme: l’una è bianca, e riluce e risplende, con la propria radice azzurra in cima; l’altra è rossa, ed è unita al legno e al lucignolo che essa brucia.
La bianca sale direttamente in alto, mentre sotto rimane ferma la rossa, senza abbandonare la materia, fornendo all’altra ciò che di essa fiammeggia e riluce”.
In questa dialettica dell’attivo e del passivo, dell’attivo e dell’agente, dei participi passati e dei participi presenti sta il senso della conquista della luce-la luce dell’opera di architettura-che non può vivere, evidentemente, senza un tempo storico e senza una materia.
All’interno di un orizzonte di valori che conferisce senso e significato a cose fino ad allora considerate insignificanti, assume senso la trasformazione, non solo temporale, ma sostanziale, della fiamma rossa in fiamma bianca.
La fiamma bianca deve giungere a sterminare le materialità che la nutrono e la alimentano.
Ecco, ogni volta il nuovo, l’unico nuovo auspicabile.

Il mattone, materiale storicamente consolidato, è un elemento ricorrente nelle Sue architetture. Perché?
Ho costruito spesso nella Pianura Padana.
Per quanto riguarda la mia opera il mattone è semplicemente il materiale più usato, da duemila anni, nei luoghi dove mi sono trovato a costruire, un materiale straordinario e durevole e, in fondo, il promo tipo di prefabbricazione.
Non uso mattoni in luoghi ove non ne sono mai stati usati.
In altri contesti ho usato la pietra. Nella Casa della Finestra a Firenze, per esempio, ho usato la pietra forte del Chianti e, per il pavimento della zona di accesso alla grande scala, ho addirittura usato le pietre delle strade di Firenze, che il Comune aveva abbandonato in una discarica.

Le sue architetture sono fortemente evocative, cariche di suggestioni e permeate da riferimenti metaforici. Il simbolo, è una chiave di lettura efficace per descrivere un progetto?
Fino ad Alessandro Magno il mondo greco e quello orientale non si erano conosciuti.
Il primo aveva costruito ogni cosa a partire dal “tipo”, un sigillo classificatorio con cui catalogare il mondo visibile, l’altro aveva costruito ogni cosa sul “simbolo”.
Possiamo dire che “tipo” e “simbolo” si incontrano, in via definitiva, alla base della croce di Cristo: la croce, (fino ad allora, un patibolo) sintetizza, anche per l’architettura, una rivoluzione culturale e spirituale.
Elena, madre di Costantino, parte da Roma in età avanzata per fondare una nuova chiesa sul Santo Sepolcro, che era stato cancellato da Adriano attraverso un tempio pagano, e altre sessanta nuove chiese in Oriente.
Questa vicenda interessa l’architettura perché il paesaggio occidentale ne è figlio.
Se ancora guardiamo, in questa direzione, tra Ottocento e Novecento, all’opera di David Caspar Friedrich e di Andreij Tarkovskij, comprendiamo che il procedimento di formazione dell’arte rivela, tra i due artisti, forti analogie. Avendo inizio da un’opera di spoglio, di demolizione dell’inutile, per mirare ad alcune figure essenziali, che transitano, diciamo, ”sotto la croce”.
In merito al mio lavoro considero riassuntiva, nel senso di cui sopra, l’esperienza della Cappella nel bosco che ho ultimato lo scorso anno: un muro, una croce, una seduta.
L’ombra della croce si riflette sul muro, ogni giorno, fino a depositarsi a terra.
Il simbolo conta non in quanto simbolo, ma per il percorso che compie.
La luce sa che, per manifestarsi attraverso l’ombra, ha sempre bisogno della terra.

Nella chiesa di San Giovanni Apostolo a Perugia, propone un intervento che si avvale della citazione storica secolare ma segue una sobria ricerca formale e un rigore stereometrico provenienti da un lessico di stampo funzionalista. La Sua, si può considerare un’architettura di mediazione?
No, non la definirei di mediazione, ma di precisione.
Nel primo capitolo ,“Il volto di una terra“, del suo “San Francesco”, del 1927, Romano Guardini individua il contesto in cui si costruisce, fin dalla giovinezza, la figura del Santo, dedicandolo interamente alla descrizione dell’ambiente architettonico e derivandone il senso della presenza francescana.
“Sui declivi dell’Appennino se si scende verso la Toscana, le case appaiono sparse come chiari, nitidi cubi. Se ci si colloca completamente sull’altura di fronte a Perugia è come se cristallo crescesse in altezza su cristallo. Si percepisce dapprima l’architettura con l’occhio, ma quello è solo l’inizio. Essa è colta realmente col corpo, con l’arco della fronte, con l’ampiezza del petto, con l’essere che la sente in modo vivo, avanzando attraverso lo spazio. Allora ti tocca con forza elementare il modo in cui questa durezza ha forma e stratificazione.”
“Dappertutto scorre l’aria, con moto di freschezza e avvolge di purezza ogni forma. E quando il sole incombe sulla città, e l’aria trema, e la pietra riverbera splendore come intrisa di luce; quando tutta questa configurazione dagli spigoli tagliati a scalpello e dalle masse murarie sta nella purezza del vento col suo tenue spirare, e nella luminosità incandescente, allora l’anima è toccata dal grande mistero di quella profondità che non sta nel caos, ma nella chiarezza..”.
In questa tensione viva” scrive ancora Guardini “che continuamente si ridesta, che mai scompare, ma viene sempre superata a nuovo in un atteggiamento particolare dell’intera persona, è cresciuto Francesco.”
Il Santo nasce alla propria complessità dalla forma esterna ed interna del paesaggio.
Da qui la indicazione del Crocifisso di ricostruire tre chiese materiali prima di compiere la missione dello spirito e l’urgenza dell’esperienza ricostruttiva come pratica quasi propedeutica.
Un frammento d'Umbria, un casale rosa, gli ulivi, la speculazione edilizia si contendono il fondale su cui è nata la chiesa di San Giovanni a Perugia . La chiesa e il centro parrocchiale si appoggiano al corpo della collina attraverso una sequenza che privilegia il concetto di sostruzione, di scavo, di piazza bassa e piazza alta che è nella storia della città di Perugia, di quel suo centro che i perugini chiamano, significativamente "Acropoli".
Una linea retta segna il percorso sacro del sagrato alla chiesa principale alla cripta, alla chiesa feriale.
Il percorso è duplicato all'esterno, attraverso la grande scala che lega la piazza Bassa e la piazza Alta, con una dimensione analoga al corpo della chiesa.
In sezione il corpo della chiesa, alto tredici metri lineari, raggiunge la stessa quota altimetrica del centro parrocchiale, alto sei metri e cinquanta.
La chiesa principale ha la sua entrata sul sagrato inferiore, verso strada.
Il corpo complessivo della chiesa è attraversato da una linea di luce che nella chiesa principale segna il taglio verticale della facciata e continua in copertura, accompagnando il fedele fino all'altare.
In una città che è costruita sulle sostruzioni, architetture che reggono altre architetture definendone e adattandone il piano di imposta rispetto alle acclività del suolo, l’insieme dei corpi progettati, impostandosi su quote d’impianto differenti e terminando su un’unica quota in sommità, si mostra quasi come nuova sostruzione che regge, a posteriori, la città esistente del secondo Novecento.

Quali difficoltà ha incontrato nei rapporti con la committenza? Come vede, a distanza di anni, il suo lavoro?
La committenza italiana è, quasi sempre, disastrosa.
L’architetto deve prevedere con essa un corpo a corpo che continua anche dopo la realizzazione.
Molte mie opere sono solo parzialmente realizzate, altre deformate.
La committenza pubblica, in tal senso, è totalmente priva di strumenti di conoscenza, ma anche istituzioni come la Chiesa non possiedono filtro critico, se non in rari casi.
In tale contesto il mio lavoro, come quello di altri, lotta per sopravvivere.

La chiesa, ha ancora un ruolo centrale nella vita di una comunità? Come si declinano attualmente gli studi sullo spazio liturgico e quali principi fondativi ne determinano la qualità?
La nozione di spiritualità, sfuggendo ai confini della liturgia, ha oltrepassato i limiti del perimetro murario degli edifici per rendersi itinerante e affrancarsi dalla necessità di un luogo deputato. Caduti i termini canonici di riferimento propri alla occidentale condizione del culto, e stabilite dal Concilio Vaticano II le linee di una più aperta e diffusa evangelizzazione, è sembrato possibile, costruendo gli edifici sacri, abbandonare la logica consequenziale di una pratica già scritta nella storia delle architetture e delle forme liturgiche, nelle regole degli ordini.
Su questo orizzonte il principio di fondo dei miei progetti rimane, come è sempre stato per gli architetti della cristianità occidentale, quello di rivelare, nell’edificio, la croce.
La manifestazione della croce, gradualmente acquisita come elemento tipologico, è la cruna entro cui lo spazio sacro continua ad avverarsi.
La fusione fra la croce e la pianta dell’ edificio continua ad assumere valore attraverso la figura del Cristo che, in sembianza umana, introduce eccellenza e fragilità alla figura tipologica, svelandone il necessario, reiterato sacrificio.
In tal senso la forma della liturgia, primo tema da iscrivere nel programma di un progetto di chiesa, deve tornare a coincidere con la forma dell’arte.
Ancora Pavel Florenskij ha sintetizzato concetto parlando, cento anni fa, di liturgia come sintesi delle arti.
Di questa sintesi mi limito, da architetto, a citare tre elementi imprescindibili cui oggi può ancorarsi il progetto della chiesa: terra, luce, silenzio.

L’Italia è un paese internazionalmente marginale?
Pare di si, per questioni strutturali , per come è organizzata la nostra società.
Ma l’architettura italiana è dotata di un saldo spessore.
Può fare molto, se resiste alle tentazioni ed acquisisce consapevolezza della sfida sulle nuove misure che il suo suolo Le richiede.

Da professore, una riflessione sulle sorti dell’università italiana: quali strumenti è necessario fornire alle nuove generazioni di architetti?
Vi devono insegnare architetti veri.

Come si abbatte il muro di gomma?
E’ necessario passare dall’altra parte, come se non esistesse. Ignorarlo.

Il libro della sua vita, quello che regalerebbe al nipotino per fargli capire cos’è l’architettura e quello infine che comprerebbe ad un lettore occasionale?
A un nipotino consiglierei di leggere libri adatti alla sua età.
A chi volesse capire cos’è l’architettura consiglio “Soggiorni. Viaggio in Grecia” di Martin Heidegger e “Lettere dal Lago di Como di Romano Guardini.”