Giampaolo Imbrighi

Romeo Giammarini
Donatella Scatena

Roma , 2010

28
Ott
2014
AUTORE
Donatella Scatena
Giampaolo Imbrighi è docente di Tecnologia presso la Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma.
Esperto analista dei procedimenti di trasformazione tecnologica del territorio, ha effettuato ricerche sull’argomento. È autore di numerose pubblicazioni, testi, articoli e saggi di rilevanza scientifica, ha partecipato come relatore a convegni nazionali ed internazionali ed ha organizzato e partecipato a seminari e workshop teorici e progettuali. Ha coordinato e coordina attività conto terzi anche con il ruolo di responsabile scientifico, e attività di ricerca a livello nazionale ed internazionale.
Ha eseguito numerosi piani, studi di fattibilità, concorsi, progetti, direzioni lavori, perizie e collaudi nel settore dell’urbanistica, dei trasporti e della mobilità, delle opere civili, delle opere pubbliche e in quello degli adeguamenti, ristrutturazioni e riqualificazioni, particolarmente nelle aree dei centri storici. Ha partecipato a numerosi concorsi pubblici di progettazione risultando vincitore - tra i più recenti - del Padiglione Italiano alla Esposizione Universale di Shanghai (Cina) del 2010.

TESTO

Nel nostro mondo dominato dalle multinazionali e dalla finanza, il dollaro-pro-capite ed il PIL sono ancora i parametri di base per valutare il benessere dal punto di vista dell’occidente industrializzato. Ritiene utopistico il tentativo di usare le tre R (riuso, riciclo, risparmio) come principio qualitativo per la società del futuro?
Credo che proprio nel mondo dominato dalla finanza, e particolarmente nel momento congiunturale che stiamo vivendo, non è affatto utopistico porre a base dei principi di una nuova società, tutta da costruire, le tre R, sigla riassuntiva dei principi del Riuso, Riciclo, Risparmio. E ciò sia perché queste metodiche rappresentano la prima risposta e forse più significativa proprio al mondo dell’economia, o almeno a quella parte di esso, che vede nel consumo se non addirittura nello spreco la principale dinamica economica. Ma anche perché, ponendosi come fattore comune alle tre R l’ottimizzazione dell’uso delle materie prime, col ricorso sempre più marcato alle materie prime seconde, si è in grado di ottenere un effettivo sistema virtuoso capace di produrre sostanziali economie in tutti i campi e primo fra tutti nel settore dell’abitare e del costruire. Peraltro se una lezione del tutto simile al ricorso alle tre R ci viene oggi proprio dal mondo cinese che passa per essere in questo momento l’economia forse più forte al mondo e che detiene gran parte del debito pubblico di nazioni tradizionalmente considerate forti, ci si rende conto di quanto questa scelta risulti ormai realmente ineluttabile.

Attualmente (dal 2010) più della metà della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani e, di questi, più di 800 milioni vivono in baraccopoli, al di fuori di qualunque regola e pianificazione. In queste strutture l’unico principio che definisce le caratteristiche dello spazio è la spontaneità individuale, l’unica rete che ne costituisce l’ossatura è quella delle relazioni tra gli abitanti. Entro il 2050 si prevede che avremo trenta super concentrazioni urbane da 20 milioni di abitanti, tutto questo sta già avendo ripercussioni in ogni campo: energetico, ambientale, sociale, culturale e politico. Nel suo padiglione italiano all’expo di Shanghai si cita come modello la struttura a “borgo” della città medioevale europea, “la città dell’uomo”. Come ritiene che si possa coniugare la tendenza in atto con un modello urbano a scala ridotta la cui vivibilità è legata alla dimensione del piccolo: la strada, il vicolo, la comunità “intra moenia”?
Per due sostanziali ragioni: la prima che proprio perché “modello” il borgo della città medievale costituisce un sistema di relazioni riproducibile grazie alla fantasia e alle capacità dell’architetto di oggi. I sistemi urbani di 20 milioni di abitanti non sono invivibili ipso facto. Lo sono in quanto non improntati ad un concept capace di sottendere uno schema di relazioni umane che lo rendano gradevole e condivisibile. In questo senso devo dire che la formazione degli architetti italiani rappresenta una vera e propria eccellenza nel campo della provata capacità di riuscire a creare ed applicare le buone pratiche del progettare la città. Non è una difesa dei nostri centri di formazione, piuttosto è una valutazione scaturente da contatti, verifiche ed esperienze oltre che di confronti diretti con altri tecnici del territorio operanti in molte altre parti del mondo e formati diversamente dagli architetti italiani.
Il secondo motivo di validità del concetto di borgo come motore di un habitat contemporaneo e, direi soprattutto futuro, è dato proprio dalla perfetta coniugazione del recupero delle relazioni interpersonali da una parte e dalle economie di scala della vita quotidiana che discendono dal modello che oggi continuiamo a chiamare “medievale” ma che risulta validissimo a maggior ragione con l’avvento dell’high technology che pervade la nostra vita quotidiana: di fatto in presenza del dominio dell’informazione e della comunicazione sul mondo, queste rafforzano proprio la spinta dirompente del modello urbano basato sulla circolazione delle idee e non delle persone.

Nella progettazione di una architettura è fondamentale partire dallo spazio, quindi dall’interno; nel concepimento di questo, quanta importanza ricopre la gestione/gerarchia dei percorsi e la centralità del momento connettivo? Inoltre, secondo lei è giusto ritenere che in architettura il concetto di spazio sia da intendere sostanzialmente come luogo delle relazioni?
Rispondo affermativamente se per spazio non intendiamo solo quello fisico cui rapportarci nelle nostre azioni e nei nostri movimenti. Infatti valutare o plasmare lo spazio come luogo delle relazioni non significa pensare solo al concetto tradizionale delle attività umane. Significa anche progettare lo spazio virtuale delle emozioni, immaginare lo spazio surreale delle sensazioni, come pure rispettare il modello di chi voglia improntare la propria vita alla dinamica metrica della persona umana negando i ritmi gerarchici dello spazio codificato, restando lontani anche dal gioco tipologico tanto sapiente quanto talvolta aberrante.
La gestione/gerarchica dei percorsi e la centralità del momento connettivo ritengo personalmente rappresentino concetti di spiccata e contraddittoria inutilità formativa ed utilità informativa. Inutilità formativa perché ritenere di insegnare a lavorare con lo spazio sulla base di modelli topologico/funzionali elementari non abitua la mente ed il cuore progettuali a formarsi al concetto di complessità, fattore essenziale nel progetto di architettura. Utilità informativa come paradosso prestazionale della necessità di suggerire, indicare le relazioni spaziali proprio nei momenti di connettività quali fasi povere della relazione spaziale: lo spazio non costruito della piazza è tale non perché rappresenta il connettivo tra volumi costruiti ma perché è luogo delle relazioni umane. Le camere urbane (sapendole naturalmente ben progettare, o almeno riconoscere) rappresentano a mio avviso le migliori applicazioni del superamento del concetto di connettività.

Nella sua ricerca sembra basare il suo approccio sulla “sobrietà”: parla di manutenzione, riciclo, strategie produttive chiuse, a sviluppo circolare, per ridurre gli effetti negativi in termini di inquinamento e sfruttamento delle risorse. Può illustrare meglio questo concetto anche in relazione alla sua incidenza rispetto alla formulazione di una nuova metodologia progettuale?
Quanto esposto nella premessa alla domanda non rappresenta a mio avviso una nuova metodologia progettuale, non ha questa ambizione: piuttosto si pone come uno strumento modesto ma insostituibile proprio per il raggiungimento di quella sobrietà realizzativa che non vuole essere modestia dei materiali, inconsistenza della ricerca formale, secondarietà del contributo strutturale e così via. Al contrario rappresenta un’apertura proprio allo sforzo di innovare i materiali inventandone di nuovi e sforzandosi di dimostrarne sia la espressività formale che le capacità di fusione del materiale stesso nella eterna dilogia struttura/decorazione. Assumere le terotecnologie come momenti significanti del progettare nuovi eventi architettonici è proprio una delle migliori risposte al dilemma sulla durata dell’architettura.