Guadalupe Alcedo, governante della maison della famiglia di Jean Francoise ed Hèlène Lemoine, mormora che non comprerebbe mai una casa come questa. È la protagonista del film/documentario Koolhaas Houselife girato da Ila Beka e Louise Lemoine per raccontare la maison progettata da Rem Koolhaas, in collaborazione con l’ingegnere Cecil Balmond (Deputy Chairman dello studio Ove Arup and Partners che ha lasciato nel 2013), attraverso uno sguardo diverso di chi, in questo caso, ogni giorno ingaggia una battaglia con questa architettura giudicata inabitabile. Diversamente, un’opera d’arte per il Ministero della Cultura francese che nel 2002 inserirà la casa nella lista del Patrimonio architettonico: la Base Mèrimèe. Sguardo, quello di Guadalupe, opposto a quello del committente e del progettista. Il primo, costretto su una sedia a ruote, desidera una casa che racconti la complessità e l’incertezza di chi è costretto a guardare il mondo a una diversa altezza e muovendosi meccanicamente poiché ora, “… sarà la casa a definire il mio mondo” (Domus, 1999) e contemporaneamente lo aiuti nel sogno di liberarsi dai vincoli che lo costringono. Il secondo fa di questo desiderio l’occasione di un progetto che diventerà una figura emblematica non solo degli anni Novanta del Novecento, rappresentativo della “S” di small dell’opera S, M, L, XL dello stesso Koolhaas ma più in generale della vita e del corpo contemporanei in relazione con lo spazio dell’elettronica, dove i movimenti di ogni corpo avvengono in libertà, secondo le parole di Beatriz Colomina.
Una casa quasi librata nell’aria agganciata alla collina naturale solo (apparentemente) attraverso un sottile cavo di acciaio. Una mongolfiera ideale poco prima del volo. Il cuore meccanico, la stanza/casa mobile arredata come spazio di lavoro (3×3,5 metri) che scorre nello spazio di un patio interno, rende riconoscibile nella memoria collettiva questa casa, associato a quel cavo sottile e nell’intera sfida alla gravità della casa, definiscono un nuovo e dirompente immaginario costruito sulla tensione, l’impossibilità e un’apparente instabilità, operata da Koolhaas e Balmond (liberando simbolicamente Villa Tugendhat e Ville Savoye e non solo) invertendo pesi e volumi e caricando eccentricamente tutte le strutture portanti, rappresentate, in particolare, da figure come quella del portale, del cilindro cavo, e della trave sopra il volume del terzo livello, poggiata sul cilindro e tirata da un cavo ancorato ad un contrappeso. Un microuniverso che riflette le “articolazioni complesse delle esistenze umane” e “interseca una pluralità di mondi” (Domus, 1999).
Costruita sul crinale di una collina che domina la valle formata dalla confluenza dei fiumi Garonna e Dordogna (dipartimento della Gironda nella regione dell’Aquitania) è protetta dai rumori dell’autostrada da una collina artificiale di progetto, che nella sua naturalità artificiale accentua la geometria della casa e rende realmente visibile il paesaggio naturale. È organizzata rispetto a quattro patii (la corte di accesso; il patio tra la zona ospiti e quella di servizio; il patio della stanza mobile; quello che divide le stanze dei genitori dai figli) e tre livelli. Un nastro avvolge stanze come nicchie irregolari all’interno della collina che accoglie la vita intima della famiglia raccolta rispetto ad una grande cucina e una sala tv. Sul lato opposto, attraversata la corte, accesso alla casa da una trincea scavata nella collina, si situano l’alloggio di servizio e le camere per gli ospiti. La casa di vetro, il soggiorno, definisce il piano intermedio e su questa galleggia il volume massiccio della zona notte dove molti oblò, in apparente disordine, concentrano e distribuiscono a diverse altezze lo sguardo, anche notturno, come lenti di un cannocchiale, sul paesaggio e sul cielo.