Verso l’integrazione urbana e sociale
Architetto di origine italiana naturalizzata brasiliana, Lina Bo Bardi (1914-1992), esponente di spicco del movimento modernista sudamericano del Secondo Dopoguerra, è estremamente debitrice nei confronti del Paese carioca, dove si è trasferita nel 1946 insieme al marito Pietro Maria Bardi e nel quale ha trovato quella libertà di espressione creativa che non riusciva ad ottenere in una Patria devastata dal secondo conflitto mondiale.
Quello del SESC Pompeia a San Paolo del Brasile, progettato nel 1977, è senza dubbio uno dei suoi progetti più celebri, che rappresenta un importante tentativo di integrazione tra l’architettura modernista e le esigenze di una società in tumultuoso cambiamento (come quella degli anni ’60 e ’70). Il promotore dell’intervento fu il SESC (Serviço Social do Comércio), ente no-profit brasiliano da sempre impegnato nel tentativo di favorire l’integrazione e le attività sportive e culturali per le classi più disagiate. Lina Bo Bardi ha saputo cogliere la sfida sociale oltre che architettonica, progettando un complesso rivolto alla città e ai suoi abitanti.
Non si tratta di un’edificazione ex-novo: il SESC Pompeia infatti è stato a lungo una fabbrica di fusti metallici, la Mauser & Cia. Ltd, in una zona della città che negli anni ’60 era ancora semiperiferica, poi inglobata nella crescita tumultuosa di San Paolo (che ad oggi è una megalopoli da 18 milioni di abitanti, il più grande agglomerato urbano dell’emisfero australe).
Il progetto (realizzato a partire dal 1977, dopo anni di ritardi e di abbandono) è tutto rivolto alla conversione in senso sociale del sito: i grandi capannoni sono stati restaurati per ospitare un teatro da 800 posti, una biblioteca, spazi espositivi, per la sosta e per il gioco. La Bo Bardi ha seguito tutto il progetto, dalla scala urbana fino agli arredi, pensando ogni singolo elemento come parte di un sistema più grande che rendesse l’area (degradata) un luogo adatto alla socializzazione e quindi anche al riscatto sociale. Si tratta a pieno titolo di una cittadella dello svago e del tempo libero, dedicata alla cultura, all’intrattenimento e allo sport.
Al restauro dei capannoni e dei volumi della ex-fabbrica sono stati affiancati tre nuovi volumi di diverse dimensioni, che costituiscono architettonicamente parlando uno degli elementi di spicco dell’intero progetto. Le tre torri, di diversa altezza, sono una cilindrica e le altre due a base prismatica. Il linguaggio richiama lo stile industriale, in piena sintonia con la precedente destinazione d’uso del sito, con un cemento a vista rude e abbozzato che rimanda ai maestri dell’architettura contemporanea brasiliana di quegli anni (ma anche alle opere di Le Corbusier). Così modernista ma anche così squisitamente carioca, il “tocco sudamericano” è dato, nel volume più grande, da aperture irregolari su fondo rosso, quasi delle ferite nella massività di questi corpi. Nel prisma più piccolo (ma più alto: undici piani) sono invece di forma rigorosamente quadrata, ma alternate in modo da creare un variegato effetto di movimento. Questo edificio ospita sale da ballo e per la ginnastica, mentre all’interno del primo trovano sede una piscina e una palestra. Nella torre più alta (diciassette metri), di forma cilindrica, appunto, non vi sono aperture in facciata, essendo interamente adibita a serbatoio per l’acqua di servizio di tutto il complesso. Delle passerelle, anch’esse in cemento a vista, collegano nei livelli centrali i tre edifici.