Le case modello sono tredici palazzine facenti parte di un complesso edilizio sorto nel 1929 a Roma nel quartiere Garbatella. In quell’anno, l’aumento della domanda di abitazioni per gli sventramenti del centro storico, il fenomeno dell’ inurbamento e l’intensa costruzione di fabbriche e di uffici – ma non di alloggi per operai e dipendenti – nella zona a sud del centro storico, costringe l’ICP a pianificare la costruzione di un nuovo quartiere. Come sito viene scelta la zona collinare della Garbatella, sia per la sua posizione strategica che per la discreta presenza di aree verdi, coerentemente con l’intenzione di riprendere il modello delle garden-cities. Abbandonando il rigoroso radiocentrismo di matrice howardiana, si assume una nuova impostazione più compatibile con l’orografia dell’area.
In occasione del XII Congresso Internazionale delle Abitazioni e dei Piani Regolatori, si assegna tramite un concorso il progetto del lotto 24 a sei architetti romani. Sotto la direzione di Plinio Marconi sorgono in quattro mesi dieci edifici che individuano nell’area triangolare uno spazio di pertinenza comune, all’interno del quale altre tre unità poste in corrispondenza delle bisettrici circoscrivono una fontana in posizione baricentrica, della quale oggi rimane un’aiuola esagonale. Mario De Renzi progetta due fabbricati: la casa 1, isolata e comprendente due alloggi di tre stanze, cucina e accessori e la 5, a schiera e composta da quattro alloggi con medesima scansione. Quest’ultima tipologia caratterizza sia gli edifici gemelli 2 e 3 di Mario Marchi, nei quali la suddivisione dei quattro alloggi avviene su due livelli e specularmente rispetto ad un asse centrale, sia l’edificio 9, progettato da Pietro Aschieri, che conta sei alloggi: quattro distribuiti in orizzontale e due in verticale. Dello stesso architetto sono gli edifici 4 e 8, composti da due alloggi di due stanze, cucina e accessori, distribuzione simile si ha all’edificio 6 di Cancellotti (progettista anche dei fabbricati 7 e 10), che conta una stanza in più rispetto ai precedenti. Di Vietti sono le case 11 e 12 (entrambe con quattro alloggi di due stanze, cucina e accessori), mentre la 13, opera di Plinio Marconi, è l’edificio di maggior complessità: due alloggi duplex in testata e quattro sviluppati su due livelli si dispongono secondo un asse speculare coincidente con la bisettrice del lotto triangolare.
Una collaborazione tanto variegata conferisce all’incarico che coinvolge i sei architetti il carattere di un laboratorio di sperimentazione, nei limiti del rispetto di alcune regole comuni: gli alloggi, mai più di otto in uno stesso edificio, sono tutti dotati di ingresso esterno indipendente, l’altezza minima dei piani è fissata a 3,25 metri. Le strutture, avendo come obiettivo l’economicità, sono realizzate in muratura con i rivestimenti esterni in intonaco, laterizi, bugnato e cortina.
Questi aspetti giustificano la denominazione di “case modello” con cui sono comunemente noti i tredici edifici. Divenuti esempi programmatici in termini di funzionalità, poiché alloggi da destinare al ceto medio, essi non sono indifferenti alla resa formale, ma tendono ad una purezza armoniosa e sobria che sottolinea la distanza dall’antenato tipologico del villino, decisamente meno moderato in termini decorativi. I giornalisti stranieri che negli anni Trenta biasimano l’arretratezza italiana e la confusione dei mezzi espressivi eccessivi e ridondanti apprezzano inaspettatamente il lotto 24, definito “luminoso esempio di costruzioni moderne razionali” e “raggio di luce nell’uniforme monotonia degli edifici”, nonché modello di una “modernità paradossalmente intesa come ritorno, come recupero di antiche leggi di semplicità compositiva”.