Maurizio Sacripanti | “Più di questo non so dirvi …”

Luca Ciancarelli
Gaia Remiddi

Roma , 18 luglio 1989

12
Ott
2014
AUTORE
Maria Teresa Cutrì
Ripubblichiamo qui una densa intervista a Maurizio Sacripanti realizzata da Ciancarelli e Remiddi in occasione di una mostra sull’opera del maestro realizzata nel 1989 presso la Facoltà di Architettura della Sapienza. Racconta Gaia Remiddi come Bruno Zevi rifiutò all’epoca di partecipare all’operazione di studio e ricerca della mostra, ritenendola, ingiustamente, una sorta di monumentalizzazione della figura di Sacripanti tale da contraddire, oltre la sua distanza dagli ambienti accademici, il “come” aveva affrontato il fare architettura e il suo lavoro con gli studenti. Quest’intervista, (riscoperta in occasione dello studio per la mia tesi di dottorato di ricerca in cui lo Spazio dell’ombra e il rapporto spazio-tempo di Sacripanti rappresenta un nodo centrale, insieme al suo opposto solo apparente dello spazio della luce di Riccardo Dalisi) è oggi estremamente vitale e attuale, affronta e in parte chiarisce temi importanti della ricerca di Sacripanti, tra arte e architettura, e soprattutto apre, ancora una volta, nuove possibilità e termini di confronto nella ricerca progettuale e nella didattica.

Luca Ciancarelli: Si laurea in Architettura a Roma nel 1973. Professore associato di Progettazione architettonica (ex Composizione architettonica) nella Facoltà di Architettura della Sapienza ci piace ricordarlo con le parole di Paolo Angeletti: “Il prof. arch. Luca Ciancarelli svolge con costanza la sua attività universitaria su due livelli, quello della ricerca progettuale (a livello della didattica e insieme a livello sperimentale) e quello della ricerca pura. All’interno del Dipartimento di Architettura porta un contributo su argomenti che riguardano la città e la sua architettura moderna e contemporanea. L’apporto è unico e originale e riguarda la formazione, antica e recente, di aree romane e il loro ruolo nella città al fine di disegnarne un progetto per la forma attuale. All’interno di questo ambito la ormai nota ricerca sulla “palazzina romana”.

Gaia Remiddi: Si laurea in Architettura a Roma nel 1967. Dal 1975 ha lavorato con Paolo Angeletti, attraversando decenni densi e vitali della critica e del fare architettura-città. I loro progetti sono stati pubblicati ed esposti in numerose mostre in Italia e all’estero. Professore ordinario di Progettazione architettonica (ex Composizione architettonica) nella Facoltà di Architettura della Sapienza, fonda con Antonella Greco l’Osservatorio sul moderno a Roma (fondazione alla quale parteciperà inizialmente anche Cristiana Marcosano Dall’Erba) su invito di Raffaele Panella (già direttore del Dipartimento di Architettura e Analisi della città della Sapienza). L’Osservatorio collabora per anni con le amministrazioni pubbliche: Comune di Roma, Soprintendenze, Regione Lazio, Archivi di stato e privati e rappresenta la conseguenza logica di un modo di raccontare e attraversare il moderno privo di pregiudizi: Logo per molti di noi di partecipare alle crisi delle modernità.

CIANCARELLI, Luca, Gaia REMIDDI. Più di questo non so dirvi … Intervista a Maurizio Sacripanti. In: NERI, Maria Luisa, Laura THERMES (a cura di) Maurizio Sacripanti, maestro di architettura, 1916-1996. Con A. GIANCOTTI, C. SERAFINI. Bollettino della Biblioteca, Facoltà di Architettura, Sapienza Università di Roma, n. 58/59. Roma: Gangemi Editore, 1998, pgg 191-99. ISBN 9788874489305.

TESTO

Abbiamo sotto gli occhi gli esecutivi per il nuovo Teatro di Forlì. In questo caso, come anche nel caso del Museo dei Carmelitani a Padova, o in altre occasioni, il progetto si confronta con il problema del rapporto tra architettura antica e architettura moderna. Come si pone nel suo modo di progettare questa questione?
Qui a Forlì l’antico è dato dalla chiesa ma questa “combinazione tra antico e moderno”, questo modo di combinarsi e compenetrarsi tra chiesa, teatro e parcheggio io l’ho fatto semplicemente perché me ne era capitata l’occasione … Per me l’antico esiste solo perché vado al museo, non perché “amo l’antico”, nel senso che per me è un mito. Si rispetto l’antico ma, se prendo una cosa antica, se ci lavoro sopra, io a questa cosa antica le devo far cambiare vestito! Da introversa, piegata su se stessa,deve diventare estroversa, donata all’uomo. Intendo dire che una cosa antica la devo comunque innestare con i nostri segni, perché possa rispondere alle nostre necessità. Altrimenti facciamo come gli stupidi che dell’antico ne fanno solo il “rilievo” perché in realtà non lo capiscono e non sanno che farsene. Mi sembra un atteggiamento accettabile, non vi pare? … In fondo anche Borromini la pensava così e ancora prima di lui lo stesso Palladio. Per esempio in ogni epoca gli architetti si sono posti il problema di saltare lo spazio ed hanno cercato di risolverlo con i migliori strumenti a loro disposizione… Oggi noi abbiamo tanti modi per “saltare lo spazio” e quindi non possiamo metterci a a rifare le colonne. Tanto più che ormai non c’è più nessuno che fabbrica le colonne. Diciamo che oggi si sa fare bene una trave di trenta metri: telefoni e te la portano a casa.

Rispondendo ad una domanda su possibili riferimenti tra il progetto di Osaka ed il padiglione di vetro di Bruno Taut, lei ha detto: “ Non penso mai quando lavoro, progetto con molta testardaggine”. Come dire non penso mai in termini letterari, per me il progettare non è un’operazione fredda …
Si, però deve essere un’operazione logica … Non è mica vero che uno si mette lì e fa l’incastro, poi fa l’esame di fattibilità, poi tutte le altre cose. Le cose non vengono mai se le fai così. No io ci giro intorno mentalmente finchè arrivo finalmente alla conclusione. E allora, solo a quel punto sviluppo quella conclusione. La distinzione semmai è nella tecnica, nell’attenzione a non perdere niente o perlomeno a perdere il meno possibile della quantità teorica che avevi all’inizio … perché solo se la mantieni tutta per strada, quando hai finito hai fatto qualche cosa. Questo si ha anche in pittura, si ha in poesia, si ha nella musica. In architettura però si deve razionalizzare. Si deve far passare il “pensiero puro” attraverso tutti i trabocchetti della realtà, delle necessità più varie, perché poi dobbiamo farci andare la gente, nell’architettura che facciamo … In questo senso è una delle arti più difficili, altrimenti l’architettura sarebbe come la musica … Non vi pare? Allora uno inventa con se stesso anche la tecnica. Quindi la tecnica diventa anche un’occasione di poetica. Ogni pittore ha una sua tecnica. Ora ci stanno pure le grandi tecniche della pittura, quella ad olio, quella a tempera, però ognuno ha una propria tecnica, un modo di lavorare dove si trova bene. Penso che sia così anche per la poesia …

È qual è allora la tecnica di Sacripanti?
Non so … come posso dire … “Se uno fa l’amore, lo può fare o in modo molto distaccato o in modo nevrastenico, oppure lo può fare in modo divertente. Io mi sono sempre divertito molto …

Un atteggiamento ben lontano dall’approccio un po’ sofferto e colmo di tensione razionalizzante che alcuni progettisti cercano talvolta di accreditare …
Ma si! Questa storia della “sofferenza” io proprio non la capisco! Per me il progetto è magari una cosa piuttosto sensuale, questo si … Sa di whisky … Ecco vedete quel quadro del grattacielo Peugeot? Quello è stato fatto in tre persone, le nuvole sono la colla di Scipione che non era il pittore ma, forse voi non ve lo ricorderete, un bidello che stava in facoltà. Era l’ultima notte, si stavano per finire le piante … la colla era quella che usavamo per il modello … io ci buttavo il whisky con una mano e con l’altra raschiavo con la lametta. Un altro di noi veniva appresso con la penna d’oca per spalmare e incidere il colore … E così è venuta fuori quella cosa lì molto rimuginata ma gagliarda. È stata fatta in appena mezzora ubriachi dopo tre notti di lavoro. Il bello veniva dopo, quando si usciva all’alba e si andava a prendere il cornetto appena caldo. Quindi questa cosa della sofferenza. A me la sofferenza la fa venire il governo … me la fanno venire gli altri! Ma se per sofferenza si intende tensione allora è meglio che uno si metta in orizzontale sul letto perché così risolve tante cose, ma questo è un altro discorso. Uno arriva a un tale punto di compenetrazione tra tutto il nostro sistema nervoso e l’idea che sta generando, che quest’idea uno se la sogna anche di notte … E allora ti svegli la mattina, vieni qui e dici sicuro: “ho capito, facciamo così” Alle volte mi è capitato di sognarmelo il progetto.

A questo proposito c’è una grande aneddotica su come certi architetti, certi maestri progettavano …
Attenzione a quello che dicono gli architetti quando scrivono o quando ti fanno vedere lo schizzo … ! Gli schizzi sono tutti falsi! … Sono falsi quelli di Le Corbusier, di Wright … sono tutti fatti dopo! Pure io, li ho fatti sempre dopo … non so perché! O meglio diciamo che all’inizio il progetto non è che un embrione, non ha niente, non si fa disegnare. Poi gli vengono le dita, gli occhi e, poco a poco, questo embrione si forma, nasce bene, nasce completo. L’architettura si fa poco a poco. L’architettura è la risultante di migliaia di funzioni come la vita. Cos’è la vita? … La vita è la risultante di tutta una serie di cose, ma anche ciò che ti fa avvertire questa risultante in modo che tu non sappia bene di che si tratta … In fondo la vita è come l’arte. Questo è importante per l’insegnamento. Io ho insegnato a tanti ragazzi ed evidentemente ho insegnato bene perché dopo ho visto che lavoravano bene e devo dire che tutti questi fremiti non glieli ho mai dati, eccetto che per imparare a concentrarsi. La concentrazione è un mestiere e come un mestiere si fa con i piedi, con le mani e con gli occhi. Io cammino, tocco ed è per necessità che lo faccio, guardo … E ci sta la riflessione, per guardare, vedo. L’architettura è arte dello spazio, è artedimensione. Ci sono le ombre, c’è la quarta dimensione, posso andare mentalmente oltre l’orizzonte … Però prima di questo c’è la realtà dell’oggetto che sto percorrendo, che sto producendo … La sua validità è la sua misura rispetto agli altri, che gli antichi misuravano come entità percorribile, mentre noi oggi la possiamo misurare attraverso l’inconscio, attraverso la fantasia, come quantità di cose che sono assenti. Per questo bisogna considerare anche gli altri quando si progetta. Insomma perché mai l’architettura antica ci interessa ancora quando, per esempio, passiamo col treno o con la macchina e vediamo una cosa antica anche molto semplice e modesta? Perché quella semplicità è complessa! Perché mai se vediamo l’architettura gotica ci diciamo: questa architettura è complessa? Prima di tutto perché è stata fatta alla “romana”, con pochi mezzi e tanto ingegno. Con maggiore attenzione. Guardate per esempio queste due cupole di Rainaldi: che maestria alzare queste cupole! Adesso per un momento immaginatevi che le cupole non siano mai esistite e che oggi venga qui uno che dice” Io ho inventato la cupola. Ne voglio alzare una verso il cielo” … Succederebbe subito un gran casino, no? Insomma pensate a come si alzerebbe oggi il campanile di piazza san Marco con tutti questi idioti che vogliono fare ognuno la propria grossa spregiudicatezza … Insomma, si è visto anche a Parigi adesso con la Piramide, che cosa è questa spregiudicatezza …

Vuole dire che quella della piramide è una spregiudicatezza soltanto formale, monumentalità solo esteriore, mentre il progetto richiede spregiudicatezze ben più profonde e coraggiose?
In realtà lo dicevo perché la Piramide è una cosa che è stata fatta adesso adesso, è fresca fresca …Siccome ne ho inteso parlare molto male … Ma non sono sicuro, non l’ho vista … Chissà forse questa cosa di cristallo, tutta trasparente, attraverso cui si vede il Rococò, magari non è poi tanto male, forse è interessante però … Ecco! Io sono sicuro che la cupola è una cosa molto più grossa, molto più interessante, della Colonna Antonina … Un evento molto ma molto più grosso …

A proposito dell’insegnamento dell’architettura, parliamo del rapporto con i suoi studenti. Per esempio ciò che ha detto ora è molto affascinante ma è anche molto difficile da comunicare a uno studente.
Beh, la scuola è quello che è. D’altra parte la storia mi fa capire che il personaggio dell’architetto deve oggi avere tanti altri ruoli. Io comunque li ho sempre preparati per fare l’architetto e non per un’altra cosa, che ne so, per fare l’ecologista “verde”, il politico oppure l’appaltatore. Perché a proposito dell’insegnamento io ho sempre pensato, e credo di aver pensato nel giusto, che uno non deve dire al ragazzo le cose che gli servono “all’indomani”. O meglio, anche quelle cose le deve dire e bene, ma gli devi dire anche quelle cose che gli restano in testa per trenta o quaranta anni. Allora lui con queste nozioni cresce e si sviluppa da solo. Altrimenti tu insegni un mestiere che lui impara non sapendo perché lo deve imparare. È come se tu parlassi una lingua straniera e lui ti rispondesse senza conoscere il senso delle parole … allora si capisce perché alla laurea talvolta vengono fuori prodotti di studenti che invece di parlare della semplicità dell’architettura, della elementarità delle sue cose, parlano di filosofia, di problemi personali, della propria vita … Insegnare l’architettura a uno studente in fondo non è altro che una stimolazione a fargli conoscere quello che sa … è come per lo sport … Come una volta, quando andavi all’Accademia Navale e per prima cosa ti buttavano nell’acqua per sapere se sapevi nuotare. Oppure quando andavi in Seminario e ti tenevano tre notti a pregare! Oppure come dai Buddisti, che addirittura ti tengono tre notti al cimitero. Se ci resisti, allora hai scoperto con te stesso una dimensione di studente … Insomma la vera difficoltà di uno studente è questa: capire la propria motivazione. Perché tutto il resto lo puoi imparare dopo o da solo. Anch’io ho imparato la maggior parte delle cose che so tutto da solo, come autodidatta. L’architettura la impari guardando l’architettura e progettandola. Le nozioni le devi imparare da solo. Sono una cosa che puoi avere comprandoti un libro e leggendotelo da solo. L’insegnamento è un’altra cosa. Voglio dire, quando insegni tu sai tanti piccoli insiemi di cose che però compongono un sistema che tu devi seguire proprio per poter cacciar fuori la persona dello studente. Per farlo deve diventare “Lui”. Solo allora l’insegnamento ha fatto qualche cosa! Quelle di architettura sono cose che non può offrire l’analisi; bisogna estrarle dalla testa dello studente. Lo studente ti deve lasciar fare perché solo così si accorge che quello che dice lui lo avevano già pensato altri, che magari non hanno neanche risolto il problema – anche perché il problema dell’architettura non l’ha mai risolto nessuno – ma che erano almeno consapevoli di ciò.

Un altro argomento di cui volevamo un po’ parlare erano i suoi rapporti con la cosiddetta “Scuola Romana”. Lei ha frequentato molto l’ambiente artistico, i pittori che operavano a Roma tra le due guerre. A noi sembra di leggere nella sua architettura anche l’influenza di queste frequentazioni. Perché se è vero che nei suoi progetti esiste un interesse prevalente verso il mondo della scienza e della tecnologia, è anche vero che il modo di rappresentare questo mondo della tecnica sembra per molti aspetti debitore delle sue frequentazioni nell’ambiente artistico romano. Cosa ricorda di questa esperienza?
Beh, da giovane qualche peccato l’ho fatto anche io. Mi piaceva dipingere. Il momento dell’indecisione è venuto dopo, se fare il pittore, se fare l’architetto, se fare lo scultore … Poi ho smesso di dipingere perché le cose della pittura sono cose troppo “severe”. In realtà non ne ho mai avuto il tempo … ma ho sempre la voglia di ricominciare. La pittura mi ha fatto capire la scienza e la scienza la pittura. Voglio dire, Einstein l’ho capito attraverso Picasso e Picasso l’ho capito attraverso Einstein. Il mio rapporto con la scuola romana? Mi ricordo Mafai, Capogrossi, Perilli … Il rapporto è stato questo “parlare di notte”, scoprire Roma, scoprire le strade di Roma, il colore di Roma, scoprire l’ombra. Poi la pittura … Venturi, la conoscenza del colore.

Si però al contrario di Picasso e Le Corbusier, i pittori della scuola romana non sono stati pittori di avanguardia, non hanno usato il linguaggio delle avanguardie.
Forse perché la scuola romana è nata sotto il fascismo e Sironi, De Pisis, Mafai non hanno potuto usare il linguaggio delle avanguardie. Però sono stati talmente carichi di poetica che sono diventati dei personaggi a se, dei personaggi che ancora si devono inquadrare. Il loro messaggio però è sempre stato un messaggio neorealistico, forse proprio per reazione a ciò che c’era allora in Francia, da sempre paese del razionalismo. Anche se proprio in Francia, in quel paese razionalista, ad un certo punto era scoppiata l’irrazionalità di creare per esempio una torre Eiffel che, in fondo, è un pensiero veramente assurdo. Assurdo ma consono all’idea di una città che viveva per un ambiente internazionale, per un mercato internazionale. Da noi l’Ottocento non c’è stato, forse perché noi non abbiamo avuto il Settecento. Insomma. Perché dalla Francia ci hanno rimandato indietro il Bernini? Perché li era cambiato qualche cosa e l’arte in Italia era caduta in disgrazia perché troppo classica, perché la Francia nel frattempo aveva saputo reinventarla l’arte. Insomma noi non abbiamo avuto le aristocrazie. Se i Principi romani non avevano niente, scavavano e si ritrovavano la casa piena di cose preziose, al massimo chiamavano i pittori … Insomma se noi non avessimo avuto il Vaticano oggi saremmo peggio di Atene! Non siamo mica più bravi! Quindi come sia nata anche in Italia l’arte moderna, diciamo nel Novecento, in fondo è stato una specie di miracolo. È vero che nel fascismo gente come Scipione, Mafai, Sironi passano come guasti, come compromessi col regime ma è anche vero che il rapporto italiano con l’estero proprio non c’era. Io, ad esempio, per poter andare in Francia ho dovuto aspettare la caduta del fascismo. Insomma noi … voglio dire io, Ciro Cicconcelli, Luigi Pellegrin, mica tanti insomma, i libri di Le Corbusier ce li passavamo come fossero gli opuscoli dell’antifascismo …

Vogliamo parlare del disegno di architettura? Della questione di come “rappresentare” l’idea o il senso di un’architettura attraverso il disegno?
Il disegno serve a due cose: serve a se stessi e serve … a imbrogliare gli altri. Si, questo disegno qui serve per imbrogliare gli altri … io non ho bisogno di questo disegno. Per me stesso, per il mio pensiero, questa prospettiva è del tutto inutile. Il disegno è solo un discorso per dire di se agli altri.

Eppure nel decennio scorso nel progetto di architettura si dava molta importanza alla rappresentazione. Si discuteva molto, allora intorno alla cosiddetta “architettura disegnata”
Questo è un altro discorso! Allora volete parlare dell’idiozia! Dell’idiozia che trasformò l’architettura nel “ Corriere dei Piccoli” facendola diventare tutta timpani e colonne … Insomma, quella era proprio l’architettura che nessuno vuole, che non esiste.

Si, d’accordo, ma questi suoi disegni, sebbene fatti per” imbrogliare la gente” se li avesse fatti un altro non sarebbero probabilmente usciti con la stessa tensione, con la stessa densità..
Si va bene, però … Tra l’altro non è che poi li faccio tutti io … Magari sono sempre io che li imposto, li controllo, li rifinisco. Ma qui a studio io ho sempre della gente che con l’insegnamento è cresciuta insieme a me. Per esempio, quel famoso disegno di Osaka, quella prospettiva che si provava e riprovava, con sforzi incredibili su come farla o come non farla, alla fine l’ha fatta Purini … è stato lui a capire che si poteva rappresentare il progetto solo guardandolo dall’alto! L’ha disegnata piccola così, quella prospettiva! Era veramente piccola e quando la vidi non sapevo che dirgli. Io dopo l’ho un po’ lavorata, ci ho anche buttato sopra l’acqua, insomma queste solite cose che servono a stemperare il disegno, però il modo giusto per rappresentare il progetto l’ha trovato Purini. Qui a studio da me! Perché lui è stato a studio mio per parecchi anni! Era roba che si faceva insieme … Io invece ho sempre disegnato molto al momento di concepire il progetto. Perché io, più che disegnare a riga e squadra, disegno nello spazio. Dell’architettura, poi ne va disegnato solo un pezzetto. Di una trave, per esempio, ti disegni gli attacchi, fai l’assonometria, te la vedi dal di sotto … Insomma quando io ho avuto occasione di insegnare disegno, se uno mi chiedeva come poteva fare per imparare a disegnare, io gli dicevo come facevo, come mi avevano insegnato a fare: si guarda un punto, una cosa, non so, uno spigolo, un lume, lo guardi bene e poi chiudi gli occhi e lo rifai a memoria. Quando sei riuscito a visualizzare perfettamente la terza dimensione con te stesso, allora hai imparato a disegnare. A volte si crede di non saper disegnare solo perché le tecniche sono diventate tante. L’unico che riesce a ricreare nella bidimensionalità del foglio non dico la terza ma anche la quarta dimensione è forse il pittore, non l’architetto. Quindi il vero disegno non è questa pianta o quella prospettiva, anche se è chiaro che sono lo strumento dell’architetto. In architettura il problema del disegno è il suo fine. Una volta, quando entravi a medicina, per prima cosa ti portavano alla sala incisoria a vedere i morti, perché il mestiere del medico è quello di combattere la morte. Per lo stesso motivo quando noi arrivammo in facoltà trovammo Del Debbio che ci distribuiva la foto di un’architettura … A me dette, appena arrivato, una foto della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza e mi disse con voce grave: “ La faccia in assonometria e in sezione!” Io me la cavavo abbastanza ma c’era anche chi dopo quest’esperienza ci moriva … Però vi assicuro che quando avevi fatto un anno di quel mestiere lì, quando dopo dovevi fare un rilievo ti andavi a misurare l’echino, ti andavi a misurare l’archetto … e quando ne avevi fatti per un anno di quei disegni … altro che se ne sapevi! Tant’è che tutti quelli che uscivano allora trovavano subito lavoro dagli architetti. Quando tu facevi l’esame con Severi, facevi l’esame di Geometria Descrittiva con la lettera maiuscola! … Era famoso Severi! Tu dovevi fare uno scritto che funzionava così: ti metteva sul tavolo una piramide, poi una sfera, poi un cubo, poi un’altra cosa, poi un’altra e un’altra ancora … un mucchio di oggetti così! Tu dovevi fare piano, prospetto, sezione, prospettiva con le ombre. In otto ore! Non so se mi spiego? Ah poi dovevi disegnare bene … Le ombre le dovevi fare col caffè, poi con la china, poi lo sfumino … pensa cos’era la sfera … E questo solo per essere ammessi all’orale! Allora quando uscivi dal biennio, insomma … già te la cavavi! Poi c’era lo sbarramento, no? E lì tutti ci restavamo fregati. Perché se uno non passava tutti gli esami, allora non si poteva iscrivere al terzo anno … A me mi fregarono in chimica, a Cicconcelli in mineralogia, a ognuno gli toccava una cosa. Perché poi in queste materie ci stavano professori di altre facoltà. A mineralogia avevamo quello che insegnava a Scienze … Quando venivano da noi, queste materie le facevano complicatissime. Quando non sbiennavamo, avevamo un anno da aspettare e allora cosa facevamo? Andavamo a lavorare negli studi. E là ti facevi le ossa … Quando arrivavi al terzo anno eri già un professionista!

E lei da chi è andato?
Sono andato da Mario De Renzi … Ci cominciai ad andare nel … adesso non mi ricordo più … Si andava sempre un po’ qui e un po’ là. Ci chiamavano per i concorsi, ci davano cinque lire l’ora. Ah ecco! Il primo lavoro l’ho fatto andando ad attaccare lettere per la Mostra della Stampa, al Vaticano. Allora facemmo le scritte e poi le carte geografiche … Io ero abbastanza bravo – perché quando ero giovane ero più bravo di adesso – e facevo anche le prospettive. Ero specializzato a fare le prospettive a tempera. Eravamo due: io e Ridolfi. Tanto che Del Debbio una mia ce l’ha ancora … fatta con l’uovo e con la china. Pure a casa di mia madre ci sta ancora un quadretto che ho fatto a quei tempi. L’uovo serviva per fare il Temperone … Con la tempera soltanto non ci puoi tornare sopra. Invece con l’uovo – e con l’aceto che ci si mette sopra per non far infradiciare l’uovo – la tempera si può riprendere. Si chiamava tempera grassa. Beh gli antichi la facevano sempre, no? Sul muro il temperone, la tempera grassa, è l’ideale. Insomma ci si può ripassare sopra, si squaglia il colore, si riprende, si sfuma … Allora si facevano certi cieli! Lunghi così! Si faceva prima una striscia, poi un’altra, poi una striscia bianca, poi si prendeva la pennellessa grossa e si sfumavano le nuvole. Insomma ci si divertiva molto, proprio come ragazzini … Io poi ho frequentato anche la scuola del nudo … All’Accademia andavo bene. C’era il Circolo Artistico … poi la sera veniva la modella e si disegnava ; poi si usciva con gli stranieri, poi si andava a bere … Era bella Roma allora!

Anche De Renzi faceva parte di questo circolo di pittori, di artisti?
No! Io però ho lavorato per De Renzi per parecchi anni … Ho disegnato quella palazzina che sta a lungotevere. L’ho rivista ultimamente e insomma … ancora oggi regge! Attenzione che quella lì è stata fatta per il proprietario che era un certo Furmanik, che allora faceva i paracadute. E mi ricordo che si sapeva che lui guadagnava mille lire per ogni paracadute, era un industriale, uno davvero ricco … Quella è stata fatta nel ‘36/’37 e farlo allora era davvero una spregiudicatezza. Beh si, De Renzi era un altro che a Roma … ha fatto il moderno. Però sapeva disegnare, era un po’ come Picasso … Non è che disegnava il triangolo … perché non sapeva disegnare altro come fanno oggi. De Renzi ha fatto anche quell’altra cosa con Libera, il Palazzo delle Poste … che poi lui non ci credeva per niente … Anche Libera ha fatto delle cose che oggi i postmoderni non saprebbero fare … Al Palazzo dei Congressi ha lavorato il cemento armato al massimo di quello che allora si poteva fare. Insomma con De Renzi ci sono stato parecchi anni a lavorare … è stato De Renzi che mi ha portato in facoltà. Con De Renzi facevamo fare il rilievo della propria casa. Erano ragazzini appena arrivati … Come te la rimetteresti a posto? Come ti disegneresti la poltrona? … Quell’anno ebbe molto successo …

Tra i suoi progetti ce ne è uno a cui lei è particolarmente affezionato? Quello di cui ne conserva il ricordo più bello?
Forse il Grattacielo Peugeot che ha segnato un po’ la mia entrèe. Poi c’è Osaka. È un progetto avanzato, un’architettura che ancora si deve fare … lo stesso potrei dire per il teatro di Cagliari.

E quelli realizzati le piacciono meno?
No, quelli realizzati mi piacciono abbastanza, mi piacciono tutti ma – come dire? – sono fatti. In fondo però anche questa cosa di Forlì è la prima volta nel mondo che si fa. Infatti ha avuto delle battaglie incredibili! … Ho dovuto combattere! Quest’avvicinamento tra antico e moderno, questo recupero dell’antico ai nostri sensi … è successo solo nel Rinascimento, poi non è più successo. C’è un po’ della spregiudicatezza che avevano gli antichi. Perché ad esempio noi oggi vediamo l’obelisco davanti a piazza San Pietro e ci pare un fatto normale. Ma se ci pensiamo un po’, per quei tempi quel gesto fu di una spregiudicatezza incredibile, no? Oppure la cupola. Per esempio provate ad immaginare che, venendo da Fiumicino, c’era in mezzo solo la palude. E chi veniva dal mare, dal porto di Fiumicino … Si trovava improvvisamente davanti … sta cosa … Enorme! … Stupenda! Insomma un po’ allucinante! Non vi pare?

Rileggendo Città di frontiera si percepisce facilmente la grande attenzione verso l’uomo. Anche lei riconferma continuamente che esso è messo veramente al centro della sua poetica, al centro della sua architettura, che appare quindi più che una questione disciplinare, un viaggio del pensiero creativo intorno ad esso. Dei suoi progetti la critica ha invece evidenziato alcuni caratteri. Ad esempio il giudizio di Manfredo Tafuri sul progetto per la Camera dei Deputati parla di un’architettura concepita come volutamente estranea all’uomo, come di una macchina che lo travolge e lo tritura in una realtà straniante, spiazzata e un po’ allucinatoria.
Tafuri aveva pure un po’ di ragione eh! … magari solo un pochino … Beh, poi quello era anche il Parlamento, no? Inventai questo luogo finto per persone finte … Però, a rivederlo a posteriori, questo apparente gioco di oggetti che restano come sospesi “tra il carnevale e la quaresima” non era proprio male, era ironico. In tutti i modi non è che ce l’aveva tanto con me, Tafuri …

Mi veniva in mente un’altra cosa a proposito di questo innalzare delle cupole di cui parlava prima. Vi sono state importanti figure di ingegneri, penso a Nervi, a Musumeci, a Morandi che a ben guardare potrebbero avere la stessa valenza costruttiva ed inventiva di un Brunelleschi o di un Michelangelo anche se, figli di altri tempi, hanno fatto solo l’hangar, il palazzo dello sport. Secondo lei c’è un’idea di spazio architettonico dentro questi progetti?
Beh si! Certo che c’è. Sai l’idea di spazio no è che viene a priori … viene come conseguenza. Se l’hai pensato e poi fatto, lo spazio c’è! Dopo, lo spazio resta, sempre. È la qualità dello spazio che conta … ma siccome non si sa che cosa sia questa qualità, quello che conta è la comunicazione di questo spazio alla mente. Una suggestione? Una evocazione? … Che cosa sia questa comunicazione, ancora non si sa. Si possono dire tante parole ma ancora realmente non lo sappiamo. Però ci sono ancora degli spazi che comunicano dopo secoli. È come la Basilica di Palladio. Altri invece diventano muti subito … Non lo so, la colonna greca non è spazio ma ha un potere evocativo enorme … La cupola, poi ha tutti i segni del nostro “mitico” … Ci riconduce all’origine, ci riconduce ai Geni, ai segni primordiali del positivo e negativo. Insomma prendi per esempio la fontana di Piazza del Popolo, che guarda il fondo della terra e le cupole che guardano il cielo … e poi l’ombra dell’obelisco, di questo orologio che marca il tempo … Sono discorsi che vanno oltre l’architettura. Sono architettura perché sono pietre, sono attacchi … però entrano in una complessità che non si sa nemmeno a chi appartenga. Per questo diventano universali, no? … va bene amici, ora vi saluto. Più di questo non so che dirvi …